
di Vito Lo Scrudato
La scrittura delle inchieste del più noto Commissario di Pubblica Sicurezza d’Italia è stata localizzata, all’atto dell’immaginazione e della stesura della narrazione, nel paese marinaro di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, tanto vicino alla città dei templi, da costituire un’unità urbana funzionale tra il capoluogo collinare e il porto, quest’ultimo a tradizionale vocazione commerciale.
La location della serie televisiva, invece, ha messo in campo le bellezze ineguagliabili della provincia di Ragusa, luogo dotato, da madre natura e dalla sua laboriosa gente, in modo strepitoso, di paesaggi rurali e urbani, di vedute, di ricercata e solare bellezza.
Le campagne ragusane sono costituite da una dolce teoria di colline verdi, per la maggior parte dell’anno, e poi pittoricamente ingiallite dalle restucce estive, tratteggiate dai muri a secco a sezione piramidale, arrotondate in cima, e decorate con maestria dall’inserimento di frequenti carrubi dalla chioma verde scuro, ampia e folta, come capelli cotonati.
A completare in modo ideale il paesaggio sono poi presenti le masserie e i palazzi nobiliari, che, oltre che belli di un’architettura antica, funzionale ed elegante, sono la testimonianza della cura, dedizione e capacità di innovazione agraria che caratterizzò la classe dirigente del passato nella Contea di Modica.
Tale concetto viene ben ricostruito da Luciano Ricceri:
“In Montalbano abbiamo avuto anche la fortuna di trovare sontuosità nell’architettura e negli interni, che non è poco. Questa regione del Sud condivide con l’Inghilterra una particolarità, che è quella dell’istinto alla conservazione. Qui un antiquario farebbe affari d’oro – e in effetti qualcuno li ha fatti – perché esiste ancora una grande quantità di ville piene di mobili di famiglia tramandati di generazione in generazione di cui i proprietari hanno voluto conservare tutto, anche dopo essere andati a vivere in abitazioni moderne. Così, masserie, ville e palazzi sono ancora com’erano un tempo: non c’è nessuno che abbia voluto ammodernare, semmai si è optato per un restauro. È gente che prova piacere a conservare le cose in maniera perfetta, ad averne cura. Un gusto che ho trovato appunto solo in Inghilterra, dove le persone dipingono e ridipingono e smaltano continuamente, con la massima attenzione” (L. Ricceri, “Alla ricerca di Vigàta”, in “Micromega – Camilleri sono”, 5/2018, p. 109).
Gli assetti urbani del ragusano sono fortemente e ancora felicemente segnati da quel barocco, unico, equilibrato, armonico e senza eccessi, il frutto, paradossalmente prelibato, prezioso, celebrato, di un’immane tragedia, come fu il terremoto del 1693. Oggi Ragusa Ibla, Modica, Ispica, Scicli, oltre che nutrimento raffinato di appetiti estetici, sono ancora la testimonianza di qual era la vivacità economica e culturale di quella Sicilia del passato.
Le chiese e i palazzi e le generali concezioni urbanistiche di quella illuminatissima nobiltà e di coraggiosi ordini religiosi, ci sorprendono oggi, stupiti e frastornati, preda di colpevole oblio (il rimbrotto vale solo per noi siciliani), oramai insufficienti al compito di ridare vigore e sviluppo alla nostra Isoletta, centro del Mediterraneo, lungamente centro del Mondo, oggi legittimamente ridotta da Sciascia e Camilleri a metafora di tutto il duro esistere degli uomini del mondo globalizzato.
I ragusani hanno confermato d’essere capaci di inventiva e laboriosità costruendo, anche al presente, un’economia agricola e della trasformazione agroalimentare, che si pone come una realtà avanzata nel panorama isolano: le masserie sono efficacemente diventate luoghi di ricezione alberghiera, di manifestazioni culturali e di apprezzabile ristorazione, mentre i prodotti alimentari hanno saputo imporsi, tanto per fare un esempio, con la qualità e l’originalità del cioccolato di Modica, gustoso e dietetico, decisamente alla moda!
C’è però un influsso diretto sul paesaggio urbano, esercitato proprio dall’evento televisivo, che potrebbe fare venire nostalgia del passato, come sembra avercene Luciano Ricceri:
“All’inizio, all’epoca dei primi film, nei pressi della casa di Montalbano, si trovavano delle barche di pescatori, che rendevano il quadro ancora più suggestivo. Su questa costa, a parte le grandi marinerie di Scoglitti e Porto Palo, sono disseminati piccoli porticcioli con tante barchette di pescatori, i quali ancora escono in mare con gozzi di 5-6 metri. Poi i pescatori se ne sono andati e hanno avuto inizio interventi, dai lampioni alle tettoie, che stanno cambiando la natura del paesaggio. Purtroppo in questi vent’anni i luoghi sono cambiati a volte in maniera tragica, come indica proprio il caso della piazza di Ibla. Prima era completamente deserta, ospitava solo un vecchio barbiere con una porticina grigio-azzurra, dello stesso colore di tutte le porte del paese, ed era stupenda. Oggi è diventata una sorta di luna park” (L. Ricceri, op. cit., p. 108).
Agrigento e Porto Empedocle in tutto questo potrebbero lamentare un esproprio perpetrato dalla produzione televisiva delle acute inchieste del Commissario nazionale. Forse che la nostra provincia è meno bella della Contea di Modica? Per non doverlo ammettere, così semplicemente e direttamente, diciamo che lo è in modo diverso.
Vorremmo resistere alla resa, mettendo in campo a difesa nientemeno che la Valle dei Templi, le spiagge sabbiose dell’intero litorale agrigentino, la leziosa e gentile città marinara di Sciacca e la frequente neve invernale della boschiva Montagna di Cammarata.
Forse che il simpatico sbirro camilleriano avrebbe avuto difficoltà a trovare una spiaggia degna, per una delle sue frequenti nuotate? In rappresentanza di tutti i lidi girgentani, da Eraclea Minoa – paesaggio, storia e mito! – a Bovo Marina fino alla Mollarella di Licata, basta riportare alla memoria visiva la scala dei Turchi, una spettacolare formazione di candida marna, balcone panoramico affacciato sullo stesso mare africano, lo stesso mare della ragusana Punta Secca.
Forse che Salvo Montalbano e il suo vice Mimì Augello (arcaismo per “uccello” dal provenzale antico auzel, che è organo del quale il vicecommissario fa alacre uso!), verrebbero sminuiti in alcun modo se intrattenessero una conversazione investigativa lungo i viali che fiancheggiano i templi greci?
Forse che si perderebbe nulla della magia narrativa televisiva se Montalbano invitasse la sua sempreverde fidanzata Livia in un ristorante sulla piazza Scandaliato di Sciacca, con vista alta sul porto, o un agriturismo sulla neve dei secolari querceti cammaratesi?
Così come Sciascia credette per anni che Il Gattopardo fosse stato pensato da Tomasi Di Lampedusa nella residenza di Palma di Montechiaro e non Santa Margherita Belice, come nella realtà del vissuto e nella dimensione creativa dell’autore, allo stesso modo Punta Secca in televisione ci era sembrato un vertice della bella spiaggia di Realmonte (Montereale nell’invenzione dello scrittore empedoclino), dove una casetta si spinge fin sull’arenile.

Non era così e quando lo scrivente di questa noterella lo seppe, volle andare di pirsona pirsonalmente (Catarella docet!) a Ispica, Modica, Ragusa e Punta Secca, per scoprire che la spiaggia di Realmonte è assai più bella dell’angusto lido ragusano e che la casa-set fruisce di tutte la maestria di cui sono capaci i tecnici televisivi, essendo nella realtà sghemba, piccola e sicuramente abusiva. Insomma la visione della casa con terrazza balconata sul mare e della spiaggetta, ci fecero rimpiangere la maestà della girgentana scala dei Turchi.
Tanto di cappello invece per l’edificio e la strada di Scicli scelta come sede del commissariato della TV, gli scorci urbani di bianche pietre e le scalinate di Modica e Ragusa Ibla, le campagne dei muri a secco e dei rigogliosi carrubbi, le imponenti aziende rurali, così come per i tanti interni di case antiche e solenni, scelti per frequenti scene ricche di atmosfera, che rimandano all’idea di una Sicilia ancora sede di una vita domestica passata, una specie di anciènt regime della quotidianità, sopravvissuta alla modernità.
Per la verità, sbollito il sopportabile disappunto campanilistico di agrigentino tradito, bisogna dire con decisione che Andrea Camilleri, con la serie televisiva del noto Commissario, ha fatto un gigantesco regalo alla Sicilia, per quanto alla percezione dall’esterno, ma soprattutto per quanto riguarda la percezione che gli stessi isolani hanno avuto ed hanno dell’Isola. Tutto è cambiato e in meglio, in molto meglio!
Tornando ai luoghi agrigentini della narrazione camilleriana, ci si ritrova per necessità ineludibile di fronte al paese d’origine dello scrittore, che prima di chiamarsi Vigàta si chiama Porto Empedocle, luogo fondamentale col quale l’autore ha intrattenuto intensa relazione a partire da una sognante – e sempre in seguito evocata e risognata – infanzia, la fonte di apprendimento della lingua e della cultura poi trasfigurata nell’opera narrativa.
Andrea Camilleri fu un bambino capace di osservare e perciò di imparare quel mondo di valori gerarchicamente ordinati, dalla sua famiglia e dalla scuola, che seppero dargli stimoli adeguati a formare, più tardi, il complesso teatro, in cui hanno agito i suoi personaggi e i luoghi di vita, le passioni, la morte, il delitto e il superamento catartico di quest’ultimo, attraverso l’amministrazione della giustizia:
“Il mio era un paese di terra e di mare. Aveva un hinterland abbastanza grande da potervi fare allignare i germi di una cultura contadina che si intrecciavano, si impastavano con quelli di una cultura più articolata e mossa, che era propria dei pescatori, dei marinai. Dal tempo della mia infanzia molte cose sono naturalmente cambiate, in meglio o in peggio non mi interessa, ma proprio perché cambiate rischiano di perdersi, di svanire anche all’interno della memoria. Che io abbia fermato alcune cose sul foglio non ha altro scopo che quello di stenografare un appunto d’uso personale: non vuole proporre paragoni, suscitare rimpianti” (A. Camilleri, Il gioco della mosca, Sellerio editore, Palermo 1999).
Molta parte dell’opera di Andrea Camilleri è in definitiva un gigantesco atto d’amore per quel paese, per quel luogo che lo vide bambino e adolescente, luogo della nostalgia, vivo e in evoluzione, e infine trasfigurato nell’opera letteraria e che gli rimase dentro la testa e nel cuore nei decenni successivi vissuti a Roma.
Lo scrittore tornava a Porto Empedocle con regolarità, ne studiò la storia e fu fatalmente attratto dalla tozza torre di Carlo V, posta a guardia del porto.

È lo stesso Camilleri a rappresentare il contesto storico e geografico del territorio di Porto Empedocle, il cui destino, fin dall’antichità, è strettamente incardinato nella storia di Agrigento:
“Non sempre la Borgata Molo si era chiamata così. Quando Agrigento era conosciuta come Akragas al tempo dei Greci o come Agrigentum al tempo dei Romani, forse la Borgata era il punto estremo e anonimo di una fitta serie di commerci che si svolgevano lungo tutta la pilaja a partire dalla contrada San Leone. La città era celebrata; poeti, storici, geografi, da Pindaro a Polibio, da Cicerone a Diodoro, quelli che la vedevano restavano ammammaloccuti per lo sfarzo degli edifici e il tenore di vita dei suoi abitanti. […] Diodoro conta che quando l’agrigentino Esseneto ce la fece a vincere i giochi olimpici, trecento carrozze ognuna tirata da quattro cavalli bianchi gli si fecero incontro al ritorno. C’è un piccolo particolare: le carrozze erano d’avorio “poiché sappiamo che le carrozze di tal fatta, in Agrigento, vi si contavano a centinaia” […] dopo le mazzate avute dai Cartaginesi, e con l’arrivo degli Arabi, la città divenuta Kerkent, si arroccò in cima alla collina che aveva alle spalle e spostò il centro dei suoi traffici marinari verso quella che sarebbe diventata la Borgata Molo. Difatti verso il 1150 Il musulmano Idrisi, geografo, scriveva al re Ruggero che “quivi si raccolgono le navi”: segno che se “l’eccelsa potenza” (è Idrisi che lo dice) era un poco calata, il commercio ancora andava che era una bellezza. […] un diploma dell’epoca [‘400] lo definisce “lo migliori et lo principali porto di quisto regno”. Migliore, ma soggetto a quello che oggi si direbbe un grave handicap: la sua particolare dislocazione faceva sì che fosse oggetto di rapide quanto devastanti razzie; i predatori, con i loro velieri, usavano appostarsi al riparo di una collina di Marna a strapiombo sul mare e che sulle acque fa come un piccolo promontorio, detta” Scala dei Turchi “; da lì, non appena gli veniva il vento a favore, erano in grado di piombare in un vìdiri e svìdiri sulla spiaggia e agguantare le mercanzie. Per porvi riparo, essendo imperatore Carlo V, il viceré Giovanni Vega fece costruire nel 1554 ‘una rocca molto forte sì di fabbrica come di munitione, per la sicurezza del formento, nel qual luogo ne viene grandissima copia’, come scrive Camillo Camilliani nella sua Descrizione della Sicilia del 1584” (La strage dimenticata, in A. Camilleri, Romanzi storici e civili, Mondadori, Milano, 2004, pp. 115-17).
Tutto nella narrazione camilleriana ci parla dettagliatamente di Vigàta-Porto Empedocle, delle sue piazze, delle sue strade, delle sue trattorie, delle sue periferie abbandonate, della sua gente, trasformata in una numerosissima teoria di personaggi: i buoni, gli ingenui, i mafiosi, i cornuti, i furbi, i minchioni, gli onesti, gli avidi, i tanti diavoli, i più rari santi, i saggi e i pazzi.
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