La decisione finale spetta al Comitato Intergovernativo che si riunirà a New Delhi dall’8 al 13 dicembre.
Il cuore della candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’UNESCO è molto profondo. È un gesto. È un modo di stare al mondo. È l’atto del cucinare, così come viene vissuto, tramandato, condiviso ogni giorno nelle case, nelle piazze, nelle campagne, nei borghi del Paese.
Il dossier tecnico lo dice con chiarezza: non si tratta di proteggere ricette o oggetti, ma la pratica viva che dà forma alla nostra storia alimentare. Una pratica che respira nei ritmi delle famiglie, negli odori che attraversano le case la domenica, nelle feste di paese, nei mercati dei produttori, nei silenzi operosi delle cucine domestiche.
Cucinare, in Italia, è un’esperienza stratificata: un sapere fatto di mani che impastano, di gesti ripetuti, di rituali che si assorbono fin da bambini, è una pratica che trascende il bisogno di nutrirsi. È un linguaggio. Una memoria collettiva. Un atto che crea comunità.
E ogni comunità qui è diversa. È questa la ricchezza: la cucina italiana non è una, ma infinite. Una somma di paesaggi, tradizioni, dialetti, stagioni. Una trama di “paesaggi gastronomici viventi” che raccontano il rapporto profondo tra cibo e territorio. È lo stesso principio che ha reso la Dieta Mediterranea patrimonio UNESCO: non una lista di alimenti, ma un modello di vita fondato sulla stagionalità, sull’equilibrio ecologico, sulla convivialità. La cucina italiana ne è un’erede naturale: nel rispetto della terra, nella celebrazione delle piccole economie agricole, nell’uso di ingredienti semplici trasformati con intelligenza e amore.
In questo quadro, i Borghi GeniusLoci De.Co. rappresentano, la narrazione più autentica di tutto ciò. Sono luoghi in cui il cibo non è solo preparato, ma vissuto. Dove la biodiversità si tocca con mano nei campi e negli orti; dove una ricetta non è mai solo un insieme di passaggi, ma il racconto di una famiglia, di una comunità, di un paesaggio. Nei borghi la stagionalità non è uno slogan: è il ritmo della vita quotidiana. Le De.Co. custodiscono prodotti identitari che sopravvivono proprio grazie alla forza delle comunità locali, alla loro capacità di proteggere ciò che rende unico un territorio.
Questa ricchezza è nata spesso da cucine considerate “povere”, ma ricchissime di ingegno. Le ricette anti-spreco di una volta, oggi tornate attualissime, raccontano un rapporto rispettoso con le risorse, un’attenzione che Pellegrino Artusi aveva già colto e raccontato nel 1891 con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Ma l’eredità di Artusi non è fatta solo di ricette: è un invito a custodire la memoria culinaria come patrimonio affettivo. Nasce da qui quella che oggi chiamiamo “cucina degli affetti”: un filo che lega generazioni, che attraversa l’Italia e arriva fino alle comunità italiane nel mondo, che hanno portato con sé non solo piatti, ma modi di cucinare e di stare insieme.
Per questo l’eventuale riconoscimento UNESCO avrebbe un valore simbolico enorme. La cucina italiana sarebbe la prima al mondo a essere tutelata nella sua interezza. Un segnale forte: il cibo non è solo commercio, turismo o spettacolo televisivo. È cultura. È identità. È relazione.
Ma perché questa storia continui a vivere – e non solo a essere celebrata – serve un impegno quotidiano: cuochi, produttori, artigiani devono difendere la stagionalità, il valore delle varietà locali, le filiere corte. Devono rifiutare le scorciatoie che appiattiscono i sapori e omologano le identità. Perché una cucina vive solo se resta fedele alle sue radici e alle sue comunità.
In fondo, tutto si riduce a questo: ogni volta che si cucina, in Italia, non si prepara solo un piatto. Si mette in tavola un pezzo di paesaggio, un frammento di storia, una memoria condivisa. E si rinnova un rito che, da Nord a Sud, nei borghi come nelle città, continua a tenere insieme un Paese intero.


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